Quando scrivo una canzone
si riparte ogni volta
da una nuvola grigia,
un corridoio di cenere
da attraversare.
Pronti ad azzerare gli Hertz tutto intorno,
col tosa-suoni silenzioso
e a ripartire dal paesaggio neutro.
Bisogna afferrare la nuvola grigia,
stenderla come un lenzuolo
da scuotere a zone come un panno,
e ciascuna frequenza
si stacca dalla sua fibra-madre
e tende a tessere molte,
moltissime amicizie molli,
avviluppandosi come l’edera
(parassita di superficie),
con l’istinto del velcro.
Ed è in questo momento
che affondano le radici,
le fibre si sfibrano assieme
coi legati,
generano sapori di mela,
di banana o di fragola.
Quando poi tutto è compiuto,
ritorna l’assalto cinereo,
l’apnea atarassica nel grigio.
Ora c’è quiete.
Sulla mensola, eccoli:
milioni di colori e sapori,
incapsulati in gusci di note musicali,
come flaconcini colorati dal litraggio infinito,
da rinavigarci dentro.
Ed ogni volta che li stappi con un play,
spazzan via la cenere intorno,
e ricominciamo a respirare.
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