da “Le stanze dentro” (Edizioni Ensemble, 2018)
da “Sundara” (Edizioni Ensemble, 2021)
Un cielo d’amarena (è solo per chi vuol cambiar colore)
Disconnessione.
Il corpo casca negli occhi,
precipitando
nel punto esatto dove si è fatto corpo,
e ricomincia da zero.
Da bambino
fu sommerso e tormentato
dal becco aguzzo di sorrisi alati
infilati sulla schiena come fronde d’ulivo,
ma conservati solo per il giorno di festa.
Da adulto
si ritrovò con la schiena nuda
e il documento d’identità
incastrato nella vena più arata del cuore.
E dalle vene ferite
il desiderio risalì annaspando nelle mani,
e con le mani tarantolate di desiderio
sradicò dal petto
un nome,
un cognome,
la Firma del Funzionario,
(più interessato alla cinematografia
che a fare il funzionario,
e quindi avvezzo ad assegnare ruoli:
faceva il regista di etichette umane).
Da vecchio
era quasi libero,
e perlava ogni giorno il cielo
sfogliando le nuvole con gli occhi-scimitarra.
«Uno, due, tre, quattro»
e lo scandiva,
battendosi sul petto,
alternando i pugni
sotto un cielo sempre più d’amarena.
S’era riconnesso al vagito iniziale
per assomigliare finalmente a sé stesso.
Scoprì così che poteva chiamarsi
Pablo,
Lucio,
Iesus,
Omar,
Mateus,
Karl,
Cornelius.
E tutti i nomi del mondo, con cui poteva chiamarsi,
nascevano zampettando dagli angoli delle parole
immersi nella curcuma,
nel cedro,
o nella schiuma avvelenata dei detersivi.
Il cielo d’amarena
scopre il lento e profumato viavai
del mondo senza parrucca,
svelatosi ciarpame
ed erba e pietra,
ché d’erba e pietra
sono i Giardini di Nabucodonosor
come le favelas.
Si accorse che stringeva pietra ed erba
tra le mani,
e assieme ai suoi capelli bianchi
erano tutto ciò di cui era fatto il mondo.
«Uno, due, tre, quattro».
C’è sempre una sensazione d’inizio,
all’inizio di ogni fine.
Una vacanza (solo un divertente blackout)
Da tempo,
col mio microscopio,
ho scovato l’estate
attorcigliata nella testa
di farfalle gelate,
sospese come le statue umane
sorprese a Pompei.
Forse la morte è un punto di vista,
un buco di silenzio,
e in questa slabbratura
(chiamiamola villeggiatura)
vorrei farci una vacanza breve,
nella testa delle farfalle gelate,
per vedere com’è.
Dimenticarmi ora d’esser vivo
prima di diventare
antiquariato da cimiteri,
che sono solo gli uffici
dei corpi smarriti
in epopee di preghiere,
esondate dalle gole
e spazzate via
dai custodi di ogni sera.
Io corro quindi
in qualche testa,
spertugio grotte spettinate di luce,
pasticcio qui e là
su pupille di burro,
sulle calotte dei vivi,
maleducandoli bene.
È una vacanza dai sensi,
ma intanto io incido,
graffio,
squamo,
scrollo,
buco,
sgravo,
affilo.
Se questa è la mia morte,
sopravvivrò nelle toilette
dei cervelli,
bicarbonandomi di leggerezza,
quando sarò anch’io
un divertente blackout
di farfalla gelata.
Le sue narici
Ci siamo impolverati bene
insieme,
di voci e favole,
sguazzati tra cartonati di negozi,
divise da controllore,
e bocche ruggenti di ciminiera.
Guardavo sempre al centro
del suo volto,
a metà strada tra l’occhio e la parola,
nel frantoiare d’aria
infornava anche gli odori:
prima di tessere di partito,
poi vennero le gomme da ufficio
e le verdure scotte,
ma anche torte Sacher,
la Becherovka, il mare
e i nebulizzatori,
e basta un niente
a distrarci d’odore.
In questa catena di montaggio
il ricordo spinato
resta infisso nelle narici
più vivo della vista.
«Prestami il naso»,
gli avrei voluto dire,
ché in questa lastra di vita
c’è sempre voglia
di sconfinarmi di me.
Go Gauguin
Scavando nel velluto
di una sera primordiale,
angeli polinesiani
raccolgono i cocci
dei loro occhi,
grappoli di spettri
infranti sulla sabbia.
Lui ha il sangue incendiato dal fuoco
e un circo itinerante in ogni vena:
si piega a cogliere,
come fossero margherite,
tutti i sogni ingialliti
appiccicati sulle carni dorate.
Lui ha l’accento marino nella voce,
corre ad arroventarsi di gambe.
D’ovatta è fatta,
una ragazza:
cambierà presto piumaggio,
e intanto nevicano ostriche,
in regalo da Paris
(calano anche panchine, dal cielo).
Corre Gauguin,
si inoltra nello zolfo delle cose ultraterrene
per metà,
sale in alto
e mezzo corpo è parigino,
nel cielo percosso dagli occhi ferrati:
ma crolla in basso l’altra metà,
si innalzano dal suolo mani selvatiche
ad avvelenarlo di guance,
e poi l’unzione,
lo scampanellare del corpo
nelle serate acquatiche.
Caro Mondo Nuovo,
di là perdiamo tutti i dettagli civili,
ci deformiamo
come animali nelle camere emozionali
scarnificati e incorniciati
nelle caverne editoriali
di un National Geographic Magazine,
là dove ci dipingono ad acqua,
sfocherellati,
secchi e leggeri
sulle tele,
o su fogli di carta,
o nei deliri digitali,
ridotti a insipide ombre elettroniche.
Tu vai Gauguin,
seppure inerte,
ma più forte della morte.
E noi invece da dove veniamo?
Chi siamo?
E come cadremo?
La sillaba selvaggia
Si inarcava come il fuoco in un labirinto.
Non riusciva a esprimersi pienamente,
dal momento che era necessario
un adattamento al contesto:
badare a non far male.
Era semplicemente un “No!”
impellicciato di spine,
consapevole che sarebbe stato pronunciato
con forza titanica,
tale da spezzare
la più coriacea delle amicizie,
da scatenare la più tenace
delle malattie psicosomatiche.
Necessitava, tuttavia,
di una mossa di alleggerimento.
Innalzatosi nelle sfere celesti,
decise di disimparare la ferinità umana,
di educarsi alla dolcezza della fauna.
Così la sillaba osservava dall’alto
e pensava:
«Felice, il piccolo koala si inerpica,
dal ventre sino al collo della madre.
Felice, fa tossire le mani di gioia:
la loro Terra
non è la nostra, per il semplice fatto
che l’uomo ha rimpiazzato con la lingua
una molteplicità di vibrazioni sensoriali».
Sulla superficie della Terra, emergono a fiotti
gli spettri di ali,
barbe, corsetti, fiale,
alabarde, rossetti,
ossa e spine.
Il nome di questa penna, ad esempio è:
Amanda.
Apparteneva a un beccaccino,
tra milioni di beccaccini,
uno nato nel 1683.
Non basterebbe una vita per studiare
la bellezza regalata da Amanda,
che ora giace eternamente in fondo a un fiume,
offrendo i suoi défilé
acquatici
a variegate specie.
Fuoriuscendo umida da quella cinematografia fluviale,
la sillaba comprese quale vergogna e colpa
sarebbe derivata
dall’offrire al prossimo
meno beneficio di quanto siano capaci di fare
le cose morte.
Rimodellò quindi il suo suono,
svuotando la bocca che la conteneva
da tutta l’artiglieria pesante,
si spogliò della sua corazza spinata e,
infine, dalle labbra,
volò via.
Cabaret nel Boulevard
Questo accadde, stando alle cronache,
in una caverna moderna.
Il Nulla gorgheggiava oltre la porta.
L’odore di benzene
passeggiava nella serratura
come sfoglia di colibrì,
e gli diceva:
«Sa cantare, il kerosene, anche Bach io so cantare»,
mutando l’odore in polifonia strumentale.
E girava girava,
il cavalierfumé con ballerinablù,
girava girava
il cabaret brillante,
raggrumando figure notturne
nella distorsione prospettica
di un bicchiere.
Lo chiamavano Tristan:
quando era al buio
evocava immagini pronte a lanciarsi di sotto
nel raggiante Boulevard.
Cabaret è nella sua gola,
piena di colibrì
e ballerine
e cavalieri,
e la testa è ormai una cesta:
gli si gonfiano le vene,
la scatola nera della memoria
si lancia nel vuoto.
Un’ocarina bianca,
in veste di farfalla,
fischiò sul feltro d’asfalto.
Tuonarono le luci notturne
con lo scintillante alfabeto delle nocche mute,
e muta restò la porta:
i giochi sono compiuti.
Una figuretta da circo si è dissolta ieri,
succhiando il dolce monossido.
Cabaret è serpe corale
nel gorgo degli uffici e delle industrie:
le ballerine spogliate, ora in tuta di fabbrica;
i cavalieri disarcionati e nerissimi,
negli abiti di rappresentanza.
La cera avventa le sue mani calde
sul piattino della candela
mentre gli angeli fanno la veglia
solo fino a domani,
soffiando bolle di sapone,
nel caldo Boulevard.