Lei scompone le gambe,
affetta parole,
sbarocca di nulla
e poi rifinisce l’architettura.
Leggo poetesse che sembrano ingegneri gestionali,
macellano gli “a capo”, saltano righe bianche,
una frase spostata a destra,
una a sinistra (mi adeguo oh-che-bello),
“Poi per proseguire vai sempre dritto a sinistra
fino alla rotatoria in un vicolo cieco,
pedalando sulla bicicletta degli occhi grigi”.
E magari anche scritture in verticale,
o in angolare goniometrato
per stupire analfabeti letterari.
Raccontano frasi sul farsi a fette
o non si capisce su cosa.
Calcolano su Excel
contorni perimetrali di sillabe,
scoppiano di preziosismi metallici,
tra cavità del vuoto
si incartano nel chiasmo
con parole affratellate d’incesto.
Ma alla fine resta il nulla,
solo esoscheletri,
impressioni di nebbia indurita
per sgomitare meglio tra le fronde.
Senza un abbraccio, evidentemente,
che dia loro qualcosa da raccontare.
Tutte presuntamente diverse e tutte uguali,
neo-futuriste, forse,
teneramente rinchiuse ed escluse
nei loro avatar in toni di grigio.
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