Col non-sorriso di brocca sbreccata
e guance di gommapiuma
giocherellava coi dorsi delle carte
come fossero schiene di gatto
bidimensionali,
con la testa felina fuggita rotolando
nel suo pelo
e il corpo inerte e appiattito.
Recepì la richiesta: “Jiàng yóu”
con un’occhiata afona e nera
e lentamente
si disgiunse dalla sedia
interrompendo quella specie di solitario.
Allora le teste di carta-gatto ritornarono indietro
a reinnestarsi sulla schiena,
per la parentesi di sua assenza.
Ne accarezzai i miagolii con le ciglia
per quel frammento di non austerità,
finché – muta – ritornò con la bottiglia,
a sottomettere i dorsi di carte,
riflessi e spalmati sulla vetrina
sotto l’insegna “China Shop”.
La dissonanza dei linguaggi
contorce le interpretazioni:
provo a smontare gli ideogrammi
in pezzi
e a rimontarli con gusto,
e immediatamente cambiano forma
anche le cose.
Così la mia bottiglia è esplosa,
la soia scorre sul pavimento.
Ho chiesto scusa,
ma chissà cosa ho detto.
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